“Io sono K , lo psichiatra che ebbe in cura Lillyth Frozen.
Quello che sto per riportarvi è uno di quei casi che nel nostro campo si definisce “clinico”, cioè un modello sintomatico perfetto se questo termine non risultasse odioso trattandosi di una malattia.
A Vienna le ricerche del professor Freud di cui ero un accanito seguace avevano portato la nostra disciplina alla ribalta e il mio studio era frequentato da un numero crescente di pazienti.
Un giorno di primavera vidi entrare Lillyth e ne fui subito colpito anche perché insieme a lei, all’improvviso, penetrò tra la spessa nube di tabacco messicano, un’ineffabile ventata di effluvi sensuali.
Era bella, colta e dotata di intelligenza intuitiva. In seguito un senso di noia mi colse, dietro quella superficie non trovavo niente che mi affascinasse dal punto di vista professionale. Avevo davanti solo una ricca e viziata giovane della buona società austriaca, le cui uniche occupazioni erano il bridge e la conversazione. Ben presto compresi il motivo che l’aveva spinta a cercare il mio aiuto. Temeva di essere pazza. Appresi dai suoi racconti che aveva un rapporto freddo e distaccato con la propria madre e un’attrazione fatale per il padre, un facoltoso e brillante uomo d’affari. Così compresi l’origine della sua nevrosi, era afflitta da un complesso edipico mai superato la cui pulsione generava in lei un profondo senso di colpa.
La terapia durò alcuni mesi, poi decisi d’interromperla perché era sopraggiunto qualcosa d’inaspettato. Per quanto mi sforzassi di rimanere distaccato, infatti, mi ero avvicinato a lei in modo sconveniente per la mia professionalità. In un primo momento credevo dipendesse dal senso di protezione che era sorto nei suoi confronti, una specie di compartecipazione alla sua sofferenza. Ben presto però mi si palesò un sentimento inesprimibile a parole che m’indusse a voler tagliare ogni ponte con lei. Dopo un anno seppi del suo gesto, il suo corpo fu trovato nel Danubio. Decisi di chiudere lo studio e di trasferirmi in campagna. Sentivo di aver fallito come medico e come uomo. Cosa poteva averla spinta a un tale gesto? Avrei potuta fermarla? Queste e altre domande mi martellavano in mente in attesa di una qualche risposta plausibile.
Ritornai spesso con il ricordo a quel giorno nel parco del Platz in cui ci eravamo rifugiati per sfuggire all’afa estiva. Io, dopo la solita chiacchierata, che aveva preso un andamento informale visto le circostanze inusuali, le presi la mano delicata e me la portai alle labbra. Le sfiorai delicatamente la pelle morbida e sentii il suo corpo fremere per reprimere il timore di cedere. Quel giorno fu il nostro penultimo incontro. Rividi Lillyth nel mio studio la settimana seguente ma la trovai fredda e distaccata. Ne analizzai le cause dal punto di vista clinico e giunsi alla conclusione che ogni pulsione erotica per lei era come rivivere l’attrazione che la riempiva di vergogna. Chiusi la terapia fingendo di non poter fare più niente per la sua salute mentale e le indicai di rivolgersi a voi, mio illustre collega. La vidi sollevata, non so se più felice di essersi liberata di me o delle sue ossessioni. Eppure quel lampo di disperazione che a un tratto le era balenato negli occhi mi avrebbe dovuto spingere a rivedere la mia posizione.
Così non fu e la lasciai andare. Lei purtroppo non giunse mai nel vostro studio. Comprenderete allora perché ho deciso di chiudere per sempre con la mia professione? La sua morte mi cadde addosso come un’enorme sciagura di cui mi sentivo responsabile. Se lei era morta, ciò era dovuto a quello che nel nostro mestiere bisogna evitare più della peste: l’indifferenza.
Vienna, 19 ottobre 1899″