Il sabato letterario

“Il sabato letterario” è l’angolo di Scrivere la vita dove discutiamo insieme di temi di letteratura, di spunti filosofici, di arte e di cinema. Il sabato di ogni settimana ci fermeremo a conversare amabilmente del mondo che più ci appassiona: La cultura. Potrete proporre voi i temi e impostare nuove conversazioni. Come? Scrivete all’indirizzo mail: [email protected]

Ogni proposta, se meritevole e in linea con la pagina, sarà pubblicata.

 

La creatività della solitudine

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«È necessaria una cosa sola: solitudine, grande solitudine interiore. Volgere lo sguardo dentro sé e per ore non incontrare nessuno: questo bisogna saper ottenere.
L’amore consiste in questo, che due solitudini si proteggono a vicenda, si toccano, si salutano: » (Rilke)

Di quale solitudine parliamo? Quella che Jung definiva portatrice di guarigione psichica, non la solitudine imposta dalla circostanze della vita.

La solitudine che vogliamo proporre è uno stato dell’anima, la condizione in cui l’individuo cattura i contorni della propria interiorità. Quindi nella solitudine c’è una percezione maestra che ci indica la via.

Nella nostra cultura, però, la solitudine non è considerata più come una guida , non è più un’alleata, ma una facile occasione per imitare modelli come quello proposto dai reality show. Per gli uomini di oggi la solitudine è una maledizione, quando dovrebbe essere invece accolta come una buona notizia. Che ci aiuta a indagare e a scoprire chi siamo.

L’uomo cosmico non può temere la solitudine, perché nel cosmo non si è mai soli. Quando gli antichi, per capirsi bene, parlavano dei genitori, si interrogavano così: “ Tu hai perso il padre? Hai perso il padre che hai conosciuto.  Perché chi ha generato il mondo non si perde mai. E’ sempre lì, è sempre stato lì.” Quindi anche nella solitudine più totale il Signore del mondo ti sta guidando…Non siamo mai soli.

Pensiamo che la nostra solitudine nasca dall’assenza di relazioni o da relazioni sbagliate. Abbiamo perso di vista la parola “solitudine” e il suo vero significato perché ci siamo identificati esclusivamente nelle relazioni che intratteniamo. E una volta compromesse ci ritroviamo nel deserto.

«I veri grandi spiriti costruiscono, come le aquile, i loro nidi a grandi altezze, nella solitudine.»
(Arthur Schopenhauer)

Eppure la possibilità che offre la solitudine, per una completa realizzazione individuale, sono state messe in rilievo dalle filosofie e dalle religioni di tutti i tempi. Il desiderio di una solitudine significativa non è in alcun modo nevrotico; al contrario, la maggior parte dei nevrotici rifugge dalle proprie profondità interiori, ed anzi, l’incapacità di una solitudine costruttiva è per se stessa un segno di nevrosi.

Il desiderio di star soli è un sintomo di distacco nevrotico soltanto quando l’associarsi alla gente richiede uno sforzo insopportabile, per evitare il quale la solitudine diviene l’unico mezzo valido.

Non c’è nulla di patologico nel cercare incoraggiamento nell’amicizia e nell’amore degli altri, direi anzi che si tratta di una manifestazione di piena salute; è di altro, però che stiamo parlando, dell’incapacità totale di fondare la propria esistenza intorno a un centro interiore e della compulsione a riempire sempre il proprio vuoto con punti di riferimento esterni, siano essi gli altri, il lavoro, le droghe e ogni altra forma di ‘addiction’.

Il tradimento che questo modo di vita sottende si caratterizza come duplice: in primo luogo viene tradito il pianto dentro di noi, il pianto che si sforza penosamente di comunicarci qualcosa, proprio come un bambino inascoltato; in secondo luogo vengono traditi gli altri, quelli cui ci rivolgiamo per farci “riempire” un po’: in questo caso infatti per noi interessante è non tanto l’altro, con la sua umanità, ma il fatto che egli ci posa gratificare con la sua prestazione di presenza.  Ci interessa soltanto soverchiare la tristezza con il rumore.

«Cerca la solitudine: in essa troverai te stesso, e alla natura leverai l’immenso inno dell’amore.»
(Ambrogio Bazzero – Scrittore italiano dell’800)

«Ma io ho bisogno di solitudine, cioè di guarire, di tornare in me, di respirare un’aria libera, leggera, gioconda…» rispondeva Nitche in Ecce Homo

«Comincia sempre da te; in tutte le cose e soprattutto con l’amore.
….amore è portare e sopportare sè stessi. La cosa comincia così. Si tratta veramente di te; tu non hai ancora finito di ardere; devono arrivarti ancora altri fuochi finchè tu non abbia accettato la tua solitudine e imparato ad amare.»
(C.G.Jung – Libro Rosso)

In ognuno, c’è qualcosa che non sarà mai compreso da nessuno. Questo qualcosa è la causa stessa della nostra solitudine, della solitudine che ci è connaturale. È questa solitudine rudimentale che dobbiamo accettare in primo luogo.

«C’è una solitudine dello spazio
una solitudine del mare
una solitudine della morte, ma
sono tutte compagnia
paragonate a quell’altro spazio più nel fondo,
quella privatezza polare:
un’anima sola con se stessa
finita infinità.»
(E.Dickinson)

 

Per concludere, la solitudine non è vivere da soli, significa diventare capaci di fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi; la solitudine non è un albero in mezzo a una pianura dove ci sia solo lui, è la distanza tra lo strato profondo e la corteccia, tra la foglia e la radice.
E da questa forza interiore l’atto creativo riceve la linfa vitale.

 

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La letteratura e le donne

 

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Continua il post di sabato 28 Febbraio incentrato sul rapporto tra donna e letteratura

Nella prima metà del sec. XX si viene gradualmente ampliando lo spazio letterario femminile, abitato da realtà diverse nelle varie parti del mondo e animato da un vivace dibattito sulla specificità della scrittura femminile.

In Francia troviamo la figura emblematica di Sidonie-Gabrielle Colette: negli anni 1900-03 firma la serie dei romanzi di Claudine sotto lo pseudonimo di Willy; andrà sotto il nome di Colette Willy e, dal 1916, solo di Colette, la sua produzione successiva, che comprende l’autobiografia “Il mio noviziato”.

In Italia spiccano i nomi di Matilde Serao (1856-1927), che affianca l’intensa attività giornalistica a quella di narratrice; Sibilla Aleramo, il cui romanzo “Una donna” costituisce un documento fondamentale per comprendere il processo di liberazione della donna nel nostro paese; Grazia Deledda, cui va nel 1926 il premio Nobel per la letteratura.

Figura fondamentale dell’universo femminile delle lettere è Virginia Woolf, che nel citato “Una stanza tutta per sé” e in “Tre ghinee” pone le pietre miliari per un discorso critico sul rapporto donne-letteratura, ancora oggi punto di riferimento per chiunque voglia occuparsi dell’argomento: la sua ricognizione nella storia della secolare costrizione al silenzio della voce femminile prende le mosse da una celebre «supposizione»: «Immaginiamo… che cosa sarebbe successo se Shakespeare avesse avuto una sorella meravigliosamente dotata, chiamata Judith – diciamo».

Il suo Orlando è una storia della condizione femminile nel corso dei secoli narrata da una figura androgina. Autrice di saggi, collaboratrice di giornali letterari, protagonista della vita intellettuale londinese del tempo, ha dato un contributo fondamentale al romanzo moderno, non solo da un punto di vista contenutistico, ma anche formale.

Negli stessi anni si fanno sentire anche altre voci femminili, spesso legate agli ambienti dell’avanguardia modernista: le inglesi Dorothy Richardson e May Sinclair, la neozelandese Katherine Mansfield, le americane Gertrude Stein e Djuna Barnes, che nella Parigi degli anni Venti trovano un ambiente fertile, decisamente libero, per le proprie sperimentazioni. Nello stesso contesto si situa l’esperienza dell’editrice e scrittrice Sylvia Beach, americana trasferitasi a Parigi, che nel 1922 pubblica uno dei capolavori della letteratura mondiale del Novecento: l’Ulisse di Joyce (che negli Stati Uniti deve la sua pubblicazione a puntate, incorsa nella censura, a una coppia di donne: Margaret Anderson e Jane Heap, direttrici della «Little Review»). Le donne iniziano dunque a far parte del sistema letterario nella sua interezza.

Dalla fine del secondo conflitto mondiale l’affermazione femminile in campo letterario va di pari passo con quella politica e intellettuale. Tra le pietre miliari di quei decenni figurano le personalità complesse di Simone de Beauvoir (Per una morale dell’ambiguità, 1947; Il secondo sesso, 1949), Elsa Morante (Menzogna e sortilegio, 1948), Marguerite Yourcenar (causa di grande scalpore per la nomina, prima donna nella storia, a membro dell’Académie Francaise, nel 1981), Sylvia Plath (che soffre la costrizione del «ruolo» femminile fino al suicidio), Christa Wolf (che in Cassandra si confronta con le figure mitiche dell’universo femminile).

Caratteristica della seconda metà del secolo è l’assimilazione della lotta per l’emancipazione femminile a quella per le minoranze e i popoli oppressi o usciti da una storia di oppressione. Molte delle voci femminili di quel periodo provengono dalle ex-colonie: bastino i nomi di Isabel Allende in Cile, Nadine Gordimer in Sudafrica, Arundhati Roy in India, Assia Djebar in Algeria.

Al presente la letteratura al femminile è divenuta un universo complesso e articolato, in cui trovano posto tutte le forme espressive, i generi, gli stili, le sperimentazioni, nonché un costante contribuito alla discussione teorica sulla scrittura femminile, tanto che, sempre più spesso, specie negli Stati Uniti, la letteratura femminile costituisce, negli atenei, una disciplina a sé; di essa si occupano specificatamente gli «Women’s studies», ma anche il più vasto ambito dei «Gendre studies».

Fine- Studio estrapolato da www.parados.it

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Inizia oggi, sabato 28 Marzo, un viaggio sul rapporto tra donna e letteratura che ci porterà alla scoperta dell’importanza della figura femminile dall’antica Grecia ai giorni nostri.

Il rapporto tra la donna e la letteratura di tutti i tempi è fatto di qualche acuto e di molti silenzi. Poche sono le protagonite femminili che si levano nel corso della storia letteraria fino a qualche decennio fa. Sono voci isolate, provenienti da donne che si sottraggono alle rigide regole del sistema letterario maschile grazie ad uno status sociale che le rende forti.


Medea, nella tragedia di Euripide (431 a.C.), deplora con forza l’impossibilità per le donne di cantare i propri sentimenti:

Febo, guida dei canti, non ha voluto donare / alla nostra mente il canto divino della lira: / giacché avrei fatto risuonare un canto / contro la razza dei maschi.

La prima voce femminile nella storia della letteratura si era già levata in Grecia, tra il VII e il VI sec. a. C.: quella di Saffo, poetessa vissuta sull’isola di Lesbo, amica del poeta Alceo, la cui fama ha attraversato i secoli. È una poesia d’amore: per la bellezza, espressione del sacro; per la dea che la incarna, Afrodite; per le fanciulle del tiaso, una comunità religioso-pedagogica, di cui Saffo era alla guida, legata al culto di Afrodite e delle Muse, nella quale venivano educate le ragazze di buona famiglia.

A Roma le donne godono di maggiore considerazione rispetto al mondo greco, ma all’interno delle mura domestiche, come educatrici dei figli e padrone della domus. Non sono pervenute voci femminili che abbiano rotto il silenzio cui erano sottomesse.

Con il Medioevo si affacciano al mondo delle lettere alcune personalità femminili: le religiose Rosvita di Gandersheim (sec. X), autrice di dialoghi drammatici, e Herrada di Landsberg, con il suo compendio Hortus Deliciarum del sec. XII; Maria di Francia, che compone dei racconti in versi, e la contessa Beatrice de Dia, nei cui versi d’amore palpita il desiderio, entrambe del sec. XI. A cavallo tra i secoli XIV e XV, Christine de Pizan, colta nobildonna alla corte di Carlo V, rimasta vedova con tre figli si guadagna da vivere scrivendo, e si conquista anche un posto nel dibattito letterario del tempo.

Ma la «scalata» all’olimpo delle lettere prende avvio nel Rinascimento, pur se ancora limitata al contesto che orbita attorno alle corte.

Nel Cinquecento si trovano poetesse che scrivono inserendosi nella tradizione del canzoniere petrarchesco, come Veronica Gambara, Vittoria Colonna e Gaspara Stampa, che i romantici considereranno una novella Saffo. La Francia dà i natali anche alle prime narratrici in prosa: di Hélisenne de Crenne è il primo romanzo autobiografico al femminile, “Les angoisses douloureuses qui procèdent d’amours”; Margherita di Navarra, principessa di Angouléme, firma la raccolta di novelle “Heptaméron”, prezioso documento sui costumi amorosi dell’epoca.

In Inghilterra, nella seconda metà del ‘600, spicca la figura di Aphra Behn, la prima donna che fa della scrittura il proprio unico mezzo di sostentamento: conosciuta per la sua opera drammatica – esordisce nel 1671 con The Forced Marriage – è anche autrice del romanzo “Oroonoko lo schiavo reale”, anticipatore di un tema – l’oppressione in contesto coloniale – che verrà in primo piano, declinato in modo diverso, dalla seconda metà del sec. XX in poi. La sua esperienza apre la strada alla letteratura femminile in epoca moderna; Virginia Woolf sancisce il suo ruolo fondamentale nel celebre saggio dedicato al rapporto tra donne e letteratura (Una stanza tutta per sé, 1929):

Con Aphra Behn siamo a una svolta molto importante del nostro percorso. Ci lasciamo alle spalle, chiuse nei loro parchi, immerse nelle loro carte, quelle nobildonne che scrivevano senza pubblico né critica, unicamente per il loro piacere. Veniamo in città ed entriamo in contatto con la gente comune che cammina per strada.

Il secolo dei «lumi», con i suoi sconvolgimenti in campo sociale, politico ed economico, vede emergere le donne dalla loro condizione di subalternità e affermarsi soprattutto figure di

L’emancipazione in campo letterario non va sempre di pari passo con quella sociale e politica; le scrittrici del primo Ottocento conducono vita appartata, distante dalla politica e spesso anche dalla città, ignara delle affermazioni delle prime teoriche del femminismo. Ma le loro opere sono lette da un pubblico femminile e urbano, il primo consumatore del nuovo genere letterario che si va imponendo: il romanzo. Il centro della narrativa «al femminile» è preferibilmente una casa, più spesso una casa di campagna, che fa da contraltare alla città: tra questi due poli si muovono le protagoniste della Austen, Elinor e Marianne in Ragione e Sentimento o le sorelle Bennett in cerca di marito in Orgoglio e Pregiudizio, così come la Jane Eyre di Charlotte Brontè, nel romanzo eponimo , o la tragica figura di Catherine, al centro di Cime Tempestose della sorella di Charlotte, Emily Bronté. Oltreoceano fiorisce la poesia di Emily Dickinson, voce fondamentale della lirica americana e mondiale della fine dell’ottocento, punto di riferimento imprescindibile. Con l’avanzare del secolo la letteratura femminile si diversifica: in Inghilterra, dove si è primariamente affermata una tradizione di scrittura al femminile, si hanno i romanzi sociali di Elizabeth Gaskell e quelli di George Eliot, pseudonimo maschile assunto da Marian Evans, caratterizzati da una perspicace intelligenza della società vittoriana e da grande femezza.

In Francia, Amandine-Lucie-Aurore Dupin (1804-1876) crea anch’essa la propria identità letteraria sotto pseudonimo maschile: si tratta di George Sand, amica dei grandi scrittori francesi dell’Ottocento, autrice di numerosi romanzi, da quelli che inaugurano il genere «passionale» – incentrati sulla lotta tra passioni dell’anima e convenzioni sociali – a quelli fortemente influenzati dalla sua adesione al pensiero socialista. Danno voce alla poesia ottocentesca, oltre a Emily Dickinson, Elizabeth Barrett Browning e Christina Rossetti, entrambe legate a due figure di spicco della letteratura inglese dell’epoca, rispettivamente i poeti Robert Browning e Dante Rossetti. (Continua sabato 7 Marzo)

Studio estrapolato da www.parodos.it

 

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Il Narcisismo dell’artista

narciso-di-remissonNarciso è un personaggio della mitologia greca, famoso per la sua bellezza. Figlio della ninfa Liriope e del dio fluviale Cefiso , nel mito appare incredibilmente crudele, in quanto disdegna ogni persona che lo ama. A seguito di una punizione divina si innamora della sua stessa immagine riflessa in uno specchio d’acqua e muore cadendo nel fiume in cui si specchiava.

Il fenomeno del narcisismo, deviazione comportamentale che si rifà al Mito di Narciso, è piuttosto diffuso nel mondo artistico e nasce dall’immagine che l’artista costruisce su se stesso soprattutto nella fase del successo.

Se il successo rappresenta la vittoria del proprio Io, in quanto rivincita al lontano fenomeno di perdita, l’artista di successo trasforma e deforma la propria figura in un’immagine che va idolatrata.

In tutte le epoche, nonché nella nostra, molti pittori hanno mostrato compiacimento nel ritrarre la propria immagine.

L’artista in tutte le sue manifestazioni spesso è egocentrico e ripiegato su stesso, in una forma d’introspezione speculativa quasi compiaciuto in un gratificante “Guardarsi dentro“.

Sartre sostenne, per esempio, che Baudelaire fosse un uomo curvo su stesso, nel tentativo di spiare i propri desideri e le proprie collere per “sorprendere quel fondo segreto che era la sua natura“.

Nella nostra epoca, dove il successo e la popolarità sono due facce della stessa medaglia a causa dell’azione pubblicitaria dei mass-media, l’artista o pseudo tale confronta il proprio successo con il grado di popolarità ottenuto e sembra più propenso al fenomeno del narcisismo.

Il successo che va a congiungersi e a confondersi con la popolarità, disorienta l’artista stesso, che vede nascere su di sè un’immagine completamente nuova: quella che gli ha cucito la massa.

Il narcisismo che ne scaturisce si unisce alla stessa dinamica dell’Atto creativo: l’amore per l’arte si confonde con l’amore per il sé. Se Oscar Wilde si dedicò a una vita mondana di stravagante estetismo, segnalandosi per le sue pose bizzarre e per le qualità di conversatore raffinato, oggi in molti artisti salottieri leggiamo l’ampia conferma in cui l’autoesaltazione coincide con trionfalismo, narcisismo e godimento di credersi un mito.

Se oggi questo fenomeno è più vistoso per via dei mass-media, è opportuno non trascurare che lo scandalo, nell’ambito dell’arte è stato spesso un mezzo con lo scopo di un’ulteriore popolarità. Infatti, la corsa al successo talvolta si trasforma in una galoppata verso lo scandalo che “fa notizia“. La ricerca spasmodica del successo attraverso gli espedienti della pubblicità incamera un’innumerevole lista di artisti di cui spesso si riconosce la personalità eccentrica e divergente.

Nel momento in cui l’artista perde il successo o presume di poterlo perdere, comincia a far scemare il proprio equilibrio, vacilla  e si aggrappa immediatamente ad altre possibilità che lo allontanano dalla convivenza con la nevrosi. Per non crollare quindi in una più grave patologia, alcuni artisti sono costretti ad agire verso direzioni sostitutive, facendo scattare meccanismi di difesa, pronti a soppiantare l’eventualità della nevrosi.

Il meccanismo alternativo più ricorrente tra gli artisti di ieri e di oggi è l’eclissamento. Pensiamo ai cantanti Mina e Lucio Battisti, che si sono inabissati nella loro arte, ma lontani da occhi indiscreti. Questa forma di occultamento della propria immagine nel potenziare il proprio annullamento, ricava, a momento opportuno, l’attenzione e l’interesse del pubblico nei confronti della propria opera, lontano dall’immagine modificata. Poi ci sono scrittori che non vogliono far conoscere nulla di sé, glorificando la propria arte nel mistero.

Compositori, pittori, letterati dei secoli scorsi hanno trovato nell’isolamento una via per proteggere la propria intimità deformata dal narcisismo.

Con il meccanismo dell’eclissamento, un artista crea il mito di se stesso, svelando la paura della paura: quella di credere che la propria immagine non significhi più niente nel panorama pubblico.

Riflessioni estrapolate e rielaborate da “Arte e follia” di Mirella De Fonzo

 

 

 

 

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4 Risposte a “Il sabato letterario”

  1. Fin quasi alla fine temevo nel solito abbaiare rabbiosi alla luna della boria egocentrica d’artista. Ma il finale sull’eclissamento mi ha fatto molto piacere.
    Infatti è la chiave di volta che risolverebbe di un processo autodistruttivo dell’arte per della popolarità di sé invece che per il gusto dell’arte stessa. Come faceva un certo, mancante Roberto Roversi, si dovrà iniziare a scrivere per sé stessi, per pochi decenti intimi, amici, grandi colleghi. Se ne ha abbastanza dei 15 minuti di popolarità per un libro (insulso) o un’opera (banale).
    Se davvero l’opera di un autore vale allora salirà a galla, prima o poi, come è capitato a tanti.

    1. Sono d’accordo con te Giovanni, è la strada che molti scrittori perseguono. La riflessione riguarda l’arte in senso lato e gli artisti che scambiano la popolarità con il successo. A parte qualche raro caso, non mi sembra che gli scrittori oggi abbiano di queste preoccupazioni. Pochi sono quelli popolari, molti hanno successo al di là e al di fuori della loro immagine.

        1. Un’osservazione legittima, Cristiana. L’articolo di qualche giorno fa
          “Lo scrittore, coscienza interiore dell’umanità”, risponde in parte al
          dilemma.

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