“Foto di lei” racconto

tutorial-lightroom-desaturazione-selettiva-21Il calore del falò mi avvolge, la musica dei Supertramp è energia metafisica, mi galvanizza. Guardo Iris, una bambina dalla pelle di rosa, è davanti a me radiosa. Sento uno sparo, come al rallentatore la vedo cadere. Guardo la mia mano, perché ho una pistola? Il suo sguardo è una lama, mi perfora l’anima. Sono disperata, la chiamo. È inerme. Sento sgorgare da dentro un grido che mi lacera.

«Camy, svegliati! Stai bene?»
La voce di Carlo placa la paura viscida che mi tiene soggiogata. Era un sogno. Sembrava vero: ero con lei, la mia bambina. Come se la vita non ci avesse riservato nient’altro, era felice accanto a me. Poi a un tratto… Devo fare i conti con i fantasmi che tornano a tenermi sveglia ogni notte… Per quanto ancora?
«Chiudi con il passato, concentrati sul presente. Assolviti, amore mio.»
Le braccia di mio marito, che mi stringono, mi riscaldano l’anima. Lui è l’unico porto in cui la tempesta interiore si seda.
Il pomeriggio in cui seppi di aspettare un bambino, andai di corsa a comprare una bottiglia di champagne. Poi a casa preparai una cena a sorpresa per mio marito.
Fu al momento del dessert che dissi a Carlo che aspettavamo il nostro primo figlio.
Brindammo. Cosa potevamo chiedere ancora a Dio? La felicità ci aveva aperto un portale adornato.
Carlo cominciò il progetto di restaurare la casa che avevamo finito di pagare: prima che nostra figlia, sì, era una bambina come ci fu rivelato dall’ecografia, nascesse. Decidemmo di trasformare lo studio in una cameretta, ridipingemmo le pareti in tinte pastello e scegliemmo con cura ogni singolo pezzo d’arredo.
Mia madre oggi è venuta a trovarmi, dice che così non va, devo reagire. Come? Questo non lo dice. Tutti dicono che devo scuotermi, uscire dal tunnel, m’invitano a farlo, ma non mi dicono come. E io non ho la bacchetta magica. Si preoccupa se mangio, si preoccupa se non mi curo, non si preoccupa invece per la ferita che mi sanguina all’altezza del cuore.
Quella non si vede, eppure c’è, profonda e dolorosa a tenermi inchiodata a un pensiero fisso: Iris è morta. Ho preso a scrivere i miei pensieri su un taccuino, mi aiuterà a svuotare l’angoscia. Così dicono i medici. Oggi sopra vi ho traforato un enorme buco bordato di nero. Ecco, io sono finita là, aspetto che qualcuno se ne accorga e mi venga a prendere.
Durante la gravidanza, tenevo un diario quotidiano sul quale annotavo frasi, emozioni, poesie. Le scrivevo per lei, gliele avrei lette quando fosse stata in grado di capire il mondo.
Il diario aveva un fiore al centro e una cornice indaco. Il fiore era un Iris, da sempre sono attratta dall’intensità della sue tinte. Lo iniziai quando ero già al terzo mese: l’esserino che portavo dentro si stava formando e cresceva, fortificandosi e nutrendosi del mio amore. Le scrivevo che attendevo in ogni angolo del cuore la sua nascita, per sentirmi completa. Sentivo chiaro che la maternità trascendesse la stessa vita e fosse un balzo nell’eternità. I mesi passavano veloci e il giorno del parto si stava avvicinando. Avevo concordato il cesareo, la bambina era podalica e sembrava non si volesse girare. Avevo preso una decina di chili e mi ero gonfiata molto.
I lavori in casa erano finiti, si doveva solo pulire e poi attendere con calma gli ultimi giorni. Carlo decise di chiamare una donna per svolgere i lavori più pesanti, per evitare che mi stancassi. C’era il bagno però da fare subito, si era deciso all’ultimo momento di cambiare le mattonelle e la doccia. Volevo portarlo a lucido al più presto, pensavo che la calce in giro desse noia alla bambina. Così passai la domenica pomeriggio a scrostare e lucidare in ginocchio. Carlo aveva chiamato per avvertirmi che sarebbe rientrato più tardi, perché doveva finire il lavoro arretrato in agenzia.
Mi ero fatta il programmino della serata, avrei pulito tutto e poi avrei cucinato in attesa che tornasse. Una botta improvvisa, come un pugno, mi risuonò in pieno ventre. Mi piegai in due. Pensai che la bambina avesse una forza fuori dal normale per assestarmi un calcio così. Passò una decine di minuti, in cui non sentii più niente. Poi ancora un colpo tremendo. Caddi in ginocchio e misi le mani sotto la pancia, sentii del liquido scendermi giù per le gambe. Lo toccai, era caldo e appiccicoso. Un presentimento agghiaccaiante, poi la certezza: sangue. Rigoli di sangue scendevano giù senza frenarsi. Fu il buio.
Non so cosa accadde dopo. Carlo mi raccontò in seguito di avermi trovata svenuta in una pozza di sangue e di avere chiamato il 118 disperato. Stavo morendo. In ospedale arrivai gravissima, fui operata e stetti cinque giorni in coma farmacologico.
Del giorno del risveglio ho il ricordo vivido della luce che mi perforava gli occhi; ripresi coscienza di ciò che era accaduto molto lentamente, inesorabilmente: Iris non c’era più dentro di me. Era morta. Mio marito le aveva scattato alcune foto e poi l’aveva fatta seppellire nella cappellina di famiglia. Il mio ventre vuoto era buio e freddo come una tomba vuota.
Tornai a casa, ma non alla vita. Ogni cosa mi ricordava il dolore, gli oggetti inanimati mi trafiggevano con crudele indifferenza.
Guardo fuori dalla finestra, gocce di pioggia scendono a bagnare la terra come mille occhi che piangano. Carlo è uscito, è andato in agenzia, qualcuno dovrà pure pensare alla vita, non tutti si possono permettere il dolore.
So dove le ha messe, l’ho scoperto. Mi arrampico sulla scala che va in soffitta con il cuore che mi batte come un tamburo. Sono immersa nelle scatole, ma non me ne importa niente, solo una cosa m’interessa: trovarle. Scavo come dovessi tirare fuori patate e finalmente viene fuori la scatoletta rosa, quella che avevo acquistato per mettere le scarpine di lana da portare in ospedale. La apro: la mia bocca è secca, i miei occhi bagnati come le mie guance. Vedo Iris addormentata, un sorriso la illumina. Ha la pelle rosea e morbida, un ciuffo chiaro sulla fronte. Non è bella come l’ho sognata, no. Ma è la mia bambina. La bacio:«Sono la mamma, piccola…».
Mi sento meno sola, quelle due foto sono tutto quello che mi rimane di lei.
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Pubblicato da Maura Puccini

La gente che piace a me si trova sempre sparsa qua e là; sono dei solitari... solo che si riconoscono non appena si trovano assieme

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